CILENTO DREAMING.
IL CILENTO è per me la mozzarella di bufala. Inimitabile ricchezza di un territorio che profuma di latte. Chè numerosi sono i caseifici dove poterla anche degustare al momento, e proprio accanto a quelle bufale che sembrano guardarti così attente. Mozzata in diverse forme: treccine, piccoli bocconcini, ovoline, ciliegine, tradizionalmente tondeggianti o grandi a suscitare emozione. La crosta, spessa ma liscia, la pasta di un bianco intenso color porcellana, sfogliata ma elastica. Lievemente tenace all’inizio e poi arrendevole al taglio da dove fuoriesce quel siero bianco con profumo di latte fresco subito al naso. Sapore delicato in bocca, ma persistente e dolciastro di quel fieno e mais di cui la bufala si nutre e di cui queste zone sono intensamente coltivate, basta guardarsi intorno. Una delizia. Con basilico e origano e insieme a quei pomodori che qui prendono tanti nomi e forme, creano quella “caprese” divenuta famosa nel mondo. La prima traccia della mozzarella è in un documento del XII secolo ritrovato nell’Archivio Episcopale di Capua: “una mozza o provatura con un pezzetto di pane era la prestazione che i monaci del monastero di S. Lorenzo in Capua davano in “agnitionem dominii”’ al Capitolo Metropolitano il quale ogni anno per antica tradizione recavasi processionalmente in quella Chiesa.” E infatti il latte di bufala veniva principalmente utilizzato per produrre provola affumicata, per una sua maggiore conservazione. Sembra che Bartolomeo Scappi, siamo nel 1570, cuoco “segreto” cioè personale di Papa Pio V, conoscesse e apprezzasse la mozzarella inserendola tra le sue ricette insieme al “butiro, al capo di latte, ai casci marzolini, al cascio parmigiano e alla neve di latte”. Ma furono i Borboni, più tardi, a incrementare l’utilizzazione del latte creando un grosso allevamento di bufale con annesso un primo caseificio sperimentale, nella tenuta di Carditello, a Caserta. Nascerà poi ad Aversa, con il Regno d’Italia, la “Taverna”, un vero e proprio mercato di mozzarelle (e anche di ricotta), che venivano ritirate nei luoghi di produzione già pesate e avvolte in foglie di giunco o mortella. Una curiosità: il bufalaro, l’allevatore, conosceva le sue bufale direttamente e attribuiva loro un nome- Contessa, Amorosa, Monacella, Ncoppe a paglia- spesso originato dal comportamento degli animali stessi.
IL CILENTO è anche i “fichi bianchi dottati “. Fatti asciugare esposti al sole, così come raccolti, su graticci di canne intrecciate. Infilzati poi, singoli o a coppie, farciti o meno, su piccoli stecchi di legno (impaccati) a raccontare in origine il mondo contadino e i suoi periodi di difficoltà. Nel “Quaterno doganale delle marine del Cilento” (1486) si parla di una fiorente attività di produzione e commercializzazione di fichi secchi considerati già un prodotto di pregio, forse grazie al legame profondo, esistito da sempre, di questo prodotto con la terra di origine e la sua gente. Di colore giallo chiaro la buccia dei frutti essiccati e giallo ambrato di un gusto molto dolce la polpa di consistenza pastosa. I “fichi mondi”, così chiamati quelli privi di buccia, raggiungono un colore così chiaro che tende al bianco. Si producono in una settantina di comuni, tutti compresi nella zona della provincia di Salerno tra le colline litoranee di Agropoli ed il Bussento e nella maggior parte dei casi inclusi nell’area del Parco nazionale del Cilento e del Vallo di Diano. Ottimi freschi come accompagnamento per salumi e formaggi, innovativi sulla pizza” fichi e prosciutto” cosparsa di piccole virgole di ricotta di bufala e in numerose altre preparazioni culinarie, da secchi diventano una vera leccornia farciti con mandorle, noci, nocciole, semi di finocchietto selvatico, alloro, scorze di agrumi e consumati come dessert. E oggi ricoperti di godurioso cioccolato e profumati da rum, cacao, spezie, da aziende, come la “Santomiele” di Prignano Cilento, che amano il loro territorio così tanto da fare dei fichi una industria fiorente di eccellenza e di bellezza e da raccontare in cartigli, in fascinose scatole, citazioni famose scritte in greco antico a ricordare Parmenide, fondatore della scuola di Elea. E i fichi freschi li trovi anche in carretti o camioncini che vendono frutta lungo le strade- piccoli bianchi dolcissimi- li riconosci tra meloni, uva e merendelle, le piccole pesche profumate dalla buccia liscia e la polpa bianco-verdolina, e accanto ai pomodori cuore di bue che il sole ha colorato, dentro, di un rosso vermiglio. Rosso sangue profumato di terra marina, quel salmastro che intensifica i sapori.
IL CILENTO è per me anche il mare e le colline a ridosso che lo abbracciano e lo vestono di verde colorato dai fichi d’India rossi, gialli, arancio. E Paestum con i suoi chilometri di spiaggia di sabbia con alle spalle una grandiosa pineta. Luogo di matrimoni di gente di mare che ama la sua terra e si sposa in spiagge perfettamente attrezzate, tra cardi e bianchi fiori selvaggi e le palme a testimoniare un amore. E con alberghi di storia lontana che hanno costruito sogni di accoglienza con alta ristorazione e servizi, come lo “Schumann”, l’unico disteso, allungato sulla sua spiaggia di sabbia, ottimo servizio e cortesia. O i Lidi a raccontare storie di famiglia come quella del Lido “Clorinda a mare”. “Non beach, come va di moda, ma mare”, spiega Irene, dolce e intraprendente imprenditrice, al timone di questo bellissimo posto tra bianchi gazebo insieme alla sorella Giuseppina (e alla loro bisnonna Clorinda, che rivive nel nome). Cibo sublime servito con una apertura innovativa: un Apertass- Aperol, Cedrata Tassoni e soda-, ma sormontato da una nuvola di impalpabile granita.
IL CILENTO è un luogo pieno di turisti soprattutto stranieri che ne apprezzano il gusto misto a cultura barocca di retaggio borbonico e orgoglio di Magna Grecia. E quel sentimento di alte colline di ulivi e castagni, nel Parco Nazionale, che si affacciano verso il Tirreno, mare dal mitico nome. Come mitici sono i borghi incollati alla roccia o lungo le rive che scendono a mare. Con agriturismi tra piante centenarie e ospitalità sempre cordiale persino in luoghi più interni, come nel Cilento storico di Perdifumo la “Casa vacanza Micheletto”, piccoli appartamenti perfettamente attrezzati per godere appieno del verde mediterraneo di 1800 specie diverse di piante autoctone spontanee, fiumi e ruscelli, rupi e foreste, e specie da proteggere come il falco pellegrino, l'aquila reale e le sue prede preferite la coturnice e la lepre appenninica. E con accanto gli antichissimi castelli di Agropoli e Castellabate che racchiudono, oggi, tanti piccoli caratteristici ristoranti. Perchè qui, da queste parti, si mangia bene e la convivialità è importante. Lo stare insieme, a tavola, tra amici. Ecco che allora il cibo, i piatti, descrivono veramente una terra e la sua storia, il carattere della gente, un territorio da cui è difficile partire. Il Cilento.
IL CILENTO sono i Templi di Paestum, così vicini e maestosi e così lontani, di almeno 2500 anni fa. E di notte così belli da togliere il fiato. Di una grandiosità che quasi intimorisce. E ancora così poco comunicati in rapporto alla loro conservata e perfetta bellezza. Il Winckelmann, storico dell’arte tedesco, quando nel 1758 giunse a Paestum, espresse il suo stupore profondo per ciò che per troppo tempo era rimasto nascosto: “Non è un fatto stupefacente che nessuno prima abbia scritto su questo?”. Questi tre templi di ordine dorico, sono ancora oggi in ottime condizioni, tanto da essere considerati esempi unici dell'architettura magno-greca: il Tempio di Nettuno (530 a.C.) il più grande che si pensava dedicato al dio Poseidone che ha dato il nome alla città, ma forse dedicato a Zeus; il Tempio di Athena, il più piccolo come dimensione, la dea della arti e della guerra nata dalla “mente di Zeus”, (conosciuto anche come Tempio di Cerere) e la Basilica, che è in realtà un tempio dedicato ad Hera, la Giunone romana, dea della fertilità, della vita e della nascita, protettrice del parto, del matrimonio e della famiglia. Ma anche, una curiosità, associata spesso al bestiame e venerata specialmente nell' isola Eubea "ricca di mandrie". Infatti il suo epiteto più comunemente usato nei poemi omerici è βοῶπις "boopis", in genere tradotto "dall'occhio bovino". Cosa che la rapporterebbe, come sguardo divino protettore, a una primitiva presenza delle bufale (magari portate dalle navi) in questo territorio ricco di acque e di acquitrini in cui questi animali, molto robusti e resistenti alle malattie e inizialmente utilizzati come forza lavoro, potevano essere ottimamente allevati. E accanto ai templi, appaiono i resti di una città già così grande che ti domandi come migliaia di anni fa gli uomini avessero le stesse nostre esigenze di oggi: il gusto della bellezza, unita alla cura del corpo e della persona- la piscina, le terme, il luogo delle gare ginniche- l’anfiteatro per le rappresentazioni teatrali, il sacello dove seppellire il personaggio più importante della città, il foro dove incontrarsi. La necessità di difendersi con confini e porte murarie e di propiziarsi gli dei, attraverso la via sacra e i templi, della fertilità del suolo, dei raccolti e delle messi, del prezioso bestiame, e per un aiuto in battaglia e per mare. Paestum, con il suo sito archeologico, inserito già dal 1998, insieme alla vicina Velia, nella World Heritage List dell’Unesco, e con i suoi innumerevoli reperti e manufatti decorativi, custoditi presso il Museo Archeologico Nazionale, come la “Tomba del tuffatore” raro esempio di pittura greca di età classica affrescata un po’all’uso etrusco. Paestum centro importante di scambi marittimi e forse anche “città sacra” in cui convergevano diverse popolazioni. “È come se un dio, qui, avesse costruito con enormi blocchi di pietra la sua casa” scrisse di Paestum Friedrich Nietzsche. Così famosa ai suoi tempi e sempre alleata di Roma (gli abitanti della città erano socii navales dei Romani, cioè, in caso di bisogno, dovevano fornire navi e marinai), tanto che il Senato le concesse, come ricompensa della sua fedeltà, di coniare moneta propria, in bronzo, con la sigla "PSSC" (Paesti Signatum Senatus Consulto). Con la crisi della religione pagana e con il successivo ritiro delle popolazioni verso la parte alta del Sele (Capaccio), poco lontano dai templi sorse una basilica cristiana, la Chiesa dell’Annunziata, e un interessante caso di sincretismo religioso si riscontra nell'iconografia della Vergine: uno dei simboli di Hera era la melagrana, emblema di fertilità e ricchezza, che appare rappresentata in mano alla dea e lo stesso simbolo passò alla Madonna, che prese l'epiteto di Madonna del Granato. Una ulteriore curiosità sono le citazioni di autori classici come Ovidio, Properzio e lo stesso Virgilio che nell’Eneide annota, sulla fertilità del suolo di Paestum, sulla bellezza ed il profumo delle sue rose e sulla loro particolarità di fiorire sempre due volte in un anno: Ben io qui canterei, qual sia de gli orti / la cultura miglior, come di Pesto / due volte rifioriscano i rosai”
Finalmente, incerti, se camminavamo su rocce o su macerie, potemmo riconoscere alcuni massi oblunghi e squadrati, che avevamo già notato da distante, come templi sopravvissuti e memorie di una città una volta magnifica.(J.W. Goethe, Viaggio in Italia, 23 marzo 1787).
marilena badolato