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LE FAVE DAI VIVI AI MORTI. A CASA DI GIULIANA BATTA PER LA CONSUETA CONVIVIALE IN AMICIZIA.

PER ricordare rituali familiari e volti cari e usi e costumi di giornate condivise.

 

A CASA di Giuliana Batta il consueto momento conviviale con gli amici di sempre a festeggiarci e a ricordare, insieme, chi ci ha lasciato. E come sempre protagoniste le fave secche, ottime, intere o a purea, con fettine di pane tostato e olio novello, quest’anno più profumato che mai. E in tavola anche la carne delle frattaglie: fegatelli- pajata a ricordare l’importanza delle viscere animali nei sacrifici a placare gli spiriti defunti, insieme a bistecche e salsicce, a ricordare il  periodo della uccisione del maiale. Il tutto innaffiato dallo splendido vino rosso novello di Gianni. Anche le brassicaceae di cavolfiore e broccoli sono irrorate di profumato extravergine, e olio con il colorato pinzimonio a donare freschezza. Le fave dolci, i nostri biscotti a base di mandorle macinate, preparate da Giuliana seguendo l’antica ricetta di Carla Shucani della storica pasticceria Sandri, sono da sempre gustate insieme al Vinsanto. La padrona di casa ha preparato per noi persino le gelatine di cotogna a forma di piccola stella, e non potevano mancare le caldarroste con il significato rituale della castagna, oltre che con la loro presenza autunnale.

 

COME DIGESTIVO un liquore dolce a base di prugnoli selvatici, preparato e sigillato in una splendida bottiglia da lui dipinta dal raffinato gourmet Giuseppe Fioroni, artista a tutto tondo, che alla fine della gaudiosa mangiata ha intonato alcuni stornelli con il suo prezioso organetto, testimonianza della allegrezza che comunque nel giorno dedicato ai trapassati, può ricollegare il mondo dei vivi con quello dei morti per un incontro, anche se fuggevole, nei ricordi comuni.

 

NELL’ANTICHITA’ di credeva che le fave al loro interno racchiudessero lo spirito dei defunti ed era rituale necessario il loro spargimento nel giorno sacro: il pater familias gettava per nove volte dietro le spalle fave (o fave nere) per placare i Lemuri, i morti che non trovavano pace. Un gesto scaramantico ma anche di riconciliazione. Ai Parentalia, di febbraio, in cui venivano per nove giorni ricordati i morti della famiglia, succedevano i Lemuria, di maggio, giorni nefasti (i templi erano chiusi, vietati i matrimoni), in cui si svolgevano riti per placare le ‘ombre dei morti’, che tornavano sulla terra per tormentare i vivi. Ma ambigua è la loro concezione, dato che ora li troviamo come manes, i buoni, ora  sotto forma di spettri come lémures o larve, che leggiamo secondo il racconto ovidiano (5, 419-444): […] Quando la notte è giunta alla metà e offre silenzio per il sonno, e il cane tace, e siete in silenzio voi variopinti uccelli, quello, memore dell’antico rito e rispettoso degli dei, si alza (scalzo: i piedi non hanno impacci) e dà segnali con le dita, unite al pollice, perché nessuna leggera ombra  si imbatta in lui, se è silenzioso. Quando ha lavato le mani, rese pure all’acqua della fonte, si gira e prima prende le nere fave, e le getta alle spalle; ma mentre le getta dice: ‘io vi mando queste fave, con queste fave riscatto me e i miei’ […]

 

I Mani esistono: la morte non estingue tutto, e la pallida ombra sfugge al vinto rogo. Sesto Properzio. Elegie, Libro IV.

 

MA per quale motivo le fave, considerate ai primordi simbolo di fertilità e buon auspicio, tanto che i campi di fave vengono benedetti in molti racconti popolari o dalla Madonna o da vari Santi che agiscono spesso sotto le spoglie di misteriosi pellegrini, diventeranno poi invece alimento nella ricorrenza dei defunti? Vari i motivi. La classicità considerava tale legume inferico forse per il colore nero che colorava alcuni baccelli, forse perché come scrive Plinio in un passo della Storia Naturale,la sua singolare capacità rispetto ad altre piante, consiste nel fatto che essa con le proprie radici sottrae linfa vitale dal sottosuolo e dunque dal regno dei morti, o forse ancora per il verificarsi di casi di crisi emolitiche acute (quello che oggi conosciamo come favismo). Secondo Giovanni Lydo ( Ἰωάννης ὁ Λυδός), filosofo neoplatonico di Bisanzio, "le fave masticate ed esposte al sole acquistano sapore ed odore di sangue umano" e ancora  "l'acqua nella quale si pone un infuso di fave si tinge di rosso, come se fosse colorata di sangue". Il legume quindi possedeva, alla luce di tali concezioni, "un valore carneo che lo fa rientrare tra quei cibi che contengono una psuké", cioè un’anima.

 

IL MOMENTO culminante e misterioso del rituale, che aveva luogo a mezzanotte, era costituito dalla masticazione di fave nere da parte del celebrante che, restando con le spalle voltate rispetto alla tomba dell'avo, ripeteva per nove volte la frase: "Io getto queste fave e con esse redimo me ed i miei avi".  I motivi della masticazione appaiono evidenti. Le fave secche infatti infuse nell'acqua, tingono quest'ultima di rosso, fenomeno dunque attivato anche dalla saliva. È da ritenersi pertanto che l'offerente, gettando queste fave sulla tomba, era convinto di rigenerare il defunto con il sangue e dunque di risuscitarlo. Per tutti questi motivi forse le fave vengono ancora oggi soprattutto utilizzate nella ricorrenza dei ‘defunti’.

 

 

[…] Se la morte non fosse / cattiva, se fosse buona / la morte?  Roberto Pazzi.

 

 

marilena badolato

 

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AUTHOR - Marilena Badolato