E CI CHIAMAVANO CINCALI. MARIO PERROTTA: ITALIANI CINCALI!-PICCOLO TEATRO DEGLI INSTABILI-ASSISI
E ci chiamavano cìncali e, vista la scarsa, quasi nulla propensione delle popolazioni nord europee verso la pronuncia della nostra fricativa, tradotto era zingari.
Zingari ci chiamavano perché nomadi, costretti a emigrare da sud a nord, e ancora più a nord, in cerca di lavoro per vivere, anzi per campare. Lasciando a casa affetti, famiglie, donne sole a ricordare.
E soltanto un uomo rimasto nel paese, un postino a raccontare, l’unico che sa scrivere e leggere quello sciame di lettere rassicuranti, nostalgiche, grondanti amore, cìncale anche loro, che migrano da sud a nord in flussi continui, portando notizie di lavoro duro quotidiano, di sudore, di paura, di speranza di ricchezze mai raggiunte, di lavoro sotterraneo sognando l’aria, il cielo e il sole del paese, le proprie donne, madri, mogli, figlie e affidando i sogni alla carta. Mario Perrotta, dal Salento, perché qui siamo tutti emigranti, una storia di miseria, di pane acqua e zangoni bolliti– pane e verdura dei campi, il tarassaco- con parole e frasi in dialetto che rendono vivo e lacerante il monologo. La guerra aveva portato la miseria più nera e la disperazione, che è una malìa, una malìa nera. Ma avviene il miracolo, un proclama che parla di lavoro per tutti, di case dignitose, di vitto e alloggio in Belgio: “ I nostri dati spiegano la dolorosa necessità della migrazione per raggiungere più confortevoli stili di vita”, così lo Stato ci ha venduti per un sacco di carbone.
Visite mediche, controlli accurati, viaggi su vagoni blindati, l’arrivo e la sistemazione in baracche. Idee concitate, fiato corto, ansia d’emozione per descrivere la discesa agli inferi:- un chilometro sotto terra, non si poteva credere fosse possibile scendere così a fondo dentro la terra nera, e ancora giù e giù, e si pensa all’inferno e al buio, ma così buio che non vedi nemmeno i tuoi pensieri, e non puoi respirare, è così caldo , i 45 gradi li senti sulla pelle. Togli i vestiti, tutti, e diventi così nero. E lì sotto c’è il grisù, che striscia, si insinua e non lo senti e pure il nome ti fotte, grisù, pensi sia un cane un gatto, poi invece ti tradisce tra i cunicoli della mina; la vena 25 poi nessuno può immaginare cos’è, l’ascensore scende veloce 700-800-1000 metri, lo stomaco è in gola e ancora giù a 1350 e una galleria principale, la vena di carbone, il resto è tutta roccia, una galleria bassa, un cunicolo per strisciare e strisciare senza guardare in alto, mai, non guardare in alto la roccia, guarda il carbone soltanto, tieni gli occhi al carbone e lavora, gli occhi al carbone e lavora, gli occhi al carbone e lavora…Scava Michele, fai vedere a questi Belgiosi cosa sei capace di fare. E allora scava e scava che passa l’odio e passa la miseria e passa pure tua moglie donna Natalìa, e ogni palata è dedicata, ogni palata è una dedica, e scava Michele in questa guerra con la terra nera– Vocaboli difficili per difficili immagini che strisciano creando l’ansia della mancanza d’aria e del buio, immagini di impatto e di grande emozione, il fiato è corto, l’assolo fantastico. Cambia continuamente registro dall’aspetto narrante a quello sudato e concitato del ricordo, dall’affetto alla rassegnazione, dall’ira al riscatto, all’ amicizia resa più forte dal sentimento di mancanza.
In Belgio i minatori muoiono, è un bollettino giornaliero di guerra, ma l’8 agosto 1956 è una strage: 262 morti a Marcinelle, di cui 136 italiani.
Alcuni torneranno in paese, torneranno gli Oronzo i Giuseppe, i Luigi, torneranno sorridenti, anche se malati di sarcoidosi, ma torneranno perché tutto il carbone del mondo a questo sole non ci può tingere nemmeno un raggio. Ma non torna Michele e il postino continuerà a scrivere lui stesso e poi a leggere alla vedova lettere del marito, inventate per rendere meno dolorosa la mancanza, fino a che lei capirà e prima di morire ringrazierà quel postino, che le aveva tenuto compagnia regalandole lettere d’affetto.
Perché a voler bene a qualcuno, non si fa male a nessuno, parola di Pinuccio il postino.
Splendida performance di un assolo che parla di tanti, di tante facce, di tante vite, di realtà diverse, accomunate da un unico destino storico di miseria e di migrazione. Come uno strappo, come un dolore, come un lamento trattenuto a stento, la voce di Mario Perrotta racconta di cose vere, piene, massicce, grevi.
Ma se il cervello emigra il cuore sembra non seguirlo, mai.
Si conclude così la stagione 2013 del Piccolo Teatro degli Instabili di Assisi, ancora una volta unica e speciale per quel magico contatto tra pubblico e teatro, tra spettatore e attore ambedue cullati da quel piccolo palcoscenico che arriva a lambire le poltrone, raccontando di sogni di speranze di realtà di suoni di parodie di tristezza, comunque del mondo. Che questo è il teatro.
Piccolo Teatro degli Instabili- Assisi- Stagione Teatrale 2012-2013
Mario Perrotta Italiani Cìncali! Parte prima: minatori in Belgio
Di Nicola Bonazzi e Mario Perrotta
marilena badolato maribell@live.it 10 aprile 2013