“FRANTOIO APERTO”, DA GIANNI E GIULIANA BATTA, A PERUGIA
Peperosa:
“Frantoio aperto”, questo di Gianni e Giuliana Batta, insieme ad Argo, qui a Perugia, zona San Girolamo. Già l’olio. Ogni anno il miracolo della frangitura delle olive si ripete e avremo il nostro olio. Simbolo di pace, dall’antichità classica, cosmetico, medicamento, nei secoli ha misurato in qualche modo il destino degli uomini. L’olio e la sua pianta originaria hanno seguito l’andamento della storia, presenza importante, che ha attraversato secoli d’oro e secoli bui, salvandosi sempre per le sue componenti di sacralità e di salubrità. E l’olio oggi, che da sempre suggella riti, credenze e ci accompagna nei momenti della vita, ci regala, novello, la solita profonda emozione gustativa della prima volta. La curiosità di scoprire un profumo nuovo, il desiderio di provare un confronto, una relazione che rimbalzerà immediatamente nell’ipotalamo: la prima spremitura non si scorda mai. Il colore verdognolo e denso, l’aroma erbaceo intenso, il gusto amarognolo e piccante che creano i nostri piatti umbri più famosi come le zuppe frantoiane, le minestre di legumi, le paste al tartufo nero di Norcia-rigorosamente con l’olio-, le panzanelle. Annata siccitosa, ondate di calore, clima difficile, hanno influenzato quest’anno la produzione-quantità del nostro olio, ma non la bontà, l’aroma, il profumo: olio vergine di grande qualità equilibrato fruttato.
Già da giorni è iniziata la frangitura delle olive, ma oggi è un giorno speciale. In questi primi giorni di novembre, oggi il 2, i vivi e i morti si pensano intensamente. E loro, i morti, sanno bene quanto a noi vivi fortissimamente e tremendamente ci manchino. Può un piatto, un ricordo di un gusto mediare questo incontro, rendere più lieve una perdita nel ricordo di una condivisone alimentare? Tra i riti più popolari per i morti, il più antico è il banchetto dei vivi, quasi come suffragio degli uni e consolazione degli altri. E Giuliana ha preparato, nella giornata di oggi, quel pranzo che una volta era della sua famiglia, i cari ora scomparsi, e di molte famiglie umbre, a base di fave secche decorticate e cotte a minestra o a zuppa con il pane abbrustolito e l’olio versato sopra a regalare sacralità, a suggellare ritualità, a donare il gusto del nuovo, perché la vita, nel ritmo della natura, continua. Fave anche intere con la buccia, semplicemente lessate in acqua e sale e aggiunta di pepe macinato al momento o peperoncino, a suggellare un piatto che sa tanto di ricordo. Un incontro a tavola dove tante volte ci si sedeva insieme, nel ricordo di un sapore, di un piatto: almeno nel ricordo quel legame dello stare insieme, oggi e per un giorno, sembra ricrearsi ricucirsi rinsaldarsi. Seguirà poi il grande fuoco per cuocere le carni, una maestosa grigliata, e l’erba amara, quella dei nostri campi, le erbe campagnole e le cicoriette rustiche per donare refrigerio e accompagnare la succulenza delle carni.
Argo si aggira festoso e nervoso tra i convitati, il profumo carneo è intenso e i suoi occhi chiedono insistentemente un piccolo assaggio, una piccola cosa, che possa mitigare la voglia: sono grandi, sempre più grandi, dilatati, umidi, supplichevoli. Ma resisto.
Per i dolci, oltre le rituali fave dolci- dolcetti a base di impasto di mandorle tritate e albumi- anche dei biscottini fantastici, olio e vino nell’impasto insieme ai semini di anice, da inzuppare nella vernaccia o nel nostro rosso di casa novello. Mancano solo gli stinchetti dei morti, piccole ossa di zucchero con un’ombra di cremina di mandorla e cannella all’interno a simulare il midollo. Chissà se la pasticceria Sandri, la Carla Schucani, li prepara ancora? Ricordi di bambina…
Cult:
La coltivazione delle fave è antichissima, e la troviamo già nei rituali dei Nostri, gente etrusca, proprio nel culto dei morti. Legume resistente come i frumenti antichi- il farro ad esempio- che spesso venivano coltivati insieme e consumati poi insieme, sempre cotti su pietre arroventate, tostati, e poi offerti ai morti. Per i romani erano banchetti e libagioni, a scopo propiziatorio, durante le ricorrenze dei Parentalia, quando si faceva festa, a significare che il legame con i trapassati in fondo non si era mai interrotto. Nel Medioevo i legumi saranno molto presenti sotto forma di minestre o zuppe accompagnate da pane e insaporite da erbe di campo o aromatiche.
Due ricette storiche del XV secolo. Le fave secche sono servite accompagnate da verdure campagnole, o diventano una minestra per i pellegrini, da gustare durante le soste dei loro viaggi di peregrinatio poenitentialis:
Consigli del maestro cuciniere, fave e verdure de lo campo.
Mettere le fave secche a bagno un giorno e una notte. Fare due bolliture in acqua. Alla seconda aggiungere lo sale. Coperte che siano si passano per istaccio, rendendole cremose e sbattendole con mestolo di legno. Mangiansi insieme a verdure de lo campo.
Fave del pellegrino
Fave secche, cipolla, erbe aromatiche, vino bianco, brodo, olio, sale
Mettete le fave secche a bagno la sera prima. Lessate in abbondante acqua, togliete dal fuoco e salate. Preparate in una pentola un soffritto con la cipolla, aggiungete le fave ben scolate, poi del vino bianco e fate evaporare, allungate poi con il brodo e sobbollite. Servite la minestra di fave in scodelle, insaporita con un trito di erbe aromatiche e abbondante olio.
A seguire, invece, una ricetta regionale e una tipica:
Fave e cicoriette
Cicoriette di campo kg 1, fave secche già sbucciate g 400, 2 patate medie, acqua, sale grosso, pepe q.b., olio evo.
Lessate le cicoriette, e fatele poi scolare bene. Soffriggere in poco olio un trito di aglio e peperoncino, aggiungete poi le cicoriette, salate pepate e lasciatele insaporire per alcuni minuti. A parte mettete in una pentola le fave secche precedentemente ammollate per 1-2 ore, le patate a pezzetti, e coprendo con acqua fredda, fate bollire per circa un’ora, schiumando di tanto in tanto e aggiustando di sale. Portate a fine cottura finchè il tutto è ridotto a crema. Servite la crema di fave calda, cosparsa di qualche cucchiaio di olio evo e di pepe macinato al momento. Accanto ponete le cicoriette di accompagnamento.
Macco di fave
Fave secche e decorticate g 250, tagliatelle larghe senza uova e spezzate, tipo maltagliati, g 100, una piccola cipolla, pecorino grattugiato, sale, pepe q.b., olio evo
Mettete a bagno le fave per 2 ore, lavatele bene, ponetele poi in una casseruola con olio evo e una piccola cipolla tritata molto finemente. Coprite le fave con un litro di acqua fredda. Salate pepate e mettete sul fuoco a fiamma bassa cuocendo per circa un’ora mescolando di tanto in tanto con un cucchiaio di legno. Quando le fave saranno disfatte unite la pasta mescolando bene perché non attacchi sul fondo. Ultimate la cottura e servite il macco caldo insaporendo a piacere con olio evo e formaggio pecorino grattugiato
Macco in dialetto perugino, significa una preparazione ammassata, sfatta, densa, da maccare che in latino era impastare ammaccando, pestando, cioè manipolando e comprimendo con le mani. Da cui deriva anche maccheroni…
Come? Il Màccu di favi è un piatto tipico siciliano? Bene, ciao Sicilia!
p.s. Lunedì al Frantoio Batta si cominceranno a macinare le olive insieme a basilico, a salvia e rosmarino, a limone, a peperoncino: quattro gusti diversi per oli che saranno già pronti e facili da usare per insaporire piatti gustosi.
marilena badolato maribell@live.it