GIORGIO CUTINI E LA SUA “ROMA, CITTA’ DELL’ANGELO”. GALLERIA D’ARTE ARTEMISIA-PERUGIA.
GIORGIO CUTINI lavora per dare nuova luce al negativo, e nuova vita. Nuova veste, nuova forma, quell’inesprimibile, ineffabile che il semplice scatto non può regalare. “Fotografo ciò che penso, non ciò che vedo. Tutto ha origine nel negativo, nella vitalità del negativo, nel senso che credo al negativo come oggetto esso stesso, in altre parole il negativo è arte.”
E’ LA REALTA’ IN BIANCO E NERO, il non colore che permettono il Sogno. In bianco e nero immagini, vesti con la mente il pensiero, quello profondo, quello inconscio. Difficile è poi comunicarlo in una mostra d’arte il cui materiale è composto da fotografie, il cui unico scopo sarebbe quello di “fotografare” la realtà, che qui invece è divelta, sfumata, allontanata dal semplice click fotografico. Un modo per suscitare la componente onirica, quello che vorremmo. Così la mostra “Roma città dell’Angelo” è lì nei monumenti della classicità, negli scorci panoramici, negli angoli suggestivi della città eterna, ma l’oscurità del negativo apre a una luce inconsueta, innovando scorci paesaggi monumenti. Apre al movimento al rumore al profumo. Insomma all’inebriante.
LA ROMA della classicità, pur presente, lascia il posto alla Roma del desiderio, ai suoi monumenti, agli angoli fascinosi, a quei pini marittimi- fortunata città di colli e di mare- a una Roma affettuosamente presente nella mente dell’artista. I lavori di Cutini- Giardino degli Aranci, Chiostro del Bramante, Aventino, Pini di Roma, Mercati di Traiano, Teatro di Marcello, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Cupola di san Pietro, L’Angelo e molti altri- corrono verso la leggerezza del vuoto, verso il territorio dell’incompiuto, ancora e sempre da compiere.
EFFETTO DI UNA MEMORIA che rimbalza su qualcosa di fermato e affettuosamente riproposto. Un volto appena delineato, una massa intricata di pensieri che solo alla fine, giù in fondo, trovano una salvifica apertura, quello sguardo al cupolone da un magico pertugio che possa renderlo più accessibile, piccola affievolita maestosità minimizzata, miniaturizzata, e la dimensione umana che da anatomica si perde tra veli opalescenti. E un accenno a Italo Calvino con le sue “città invisibili”: “Città di Jo Kut” è un viaggio seriale, in sei immagini, sospinto per terra e mare da un ondulato movimento sino alla sagoma lontana della città agognata.
LAVORANDO SUL NEGATIVO l’artista ottiene un effetto del ricordo che diventa, sfumandosi, sempre più Sogno, e nel ricordo dello scatto primigenio, diventa nostalgia universale di un qualcosa che comunque si vuole fermare. E, come pensiero magico, è lo spettatore che sceglie cosa privilegiare o invece cancellare di quella immagine. Se trattenerne il focus o l’alone di mistero che la circonda.
UN LUOGO, un monumento, una immagine anatomica (chè l’artista è chirurgo) sfuggono a quella precisione che la professione ha imposto a lungo e si librano nel cielo dell’impossibile, finalmente. Lontano, serenamente lontano, verso altri voli, altre immagini, fino all’affermazione del solo bianco e nero sfumato in un grigio perenne in maniera tale che il confine fra sogno e realtà, fra visione e allucinazione, venga assottigliandosi sino alla demarcazione di un pensiero. Atto finale.
Non so se l’Angelo qui appaia nella sua doppia natura corporea e incorporea, umana e alata nello stesso tempo, protezione salda o inconsistente figura. Ma so che proprio questo è il messaggio che arriva: tra reale e sfumato, tra corporeo ed evanescente, lì fermo tra l’anatomia delle pieghe e le corde invece dell’anima.
“Siamo per la fotografia che nasce dalle emozioni e dall’intelletto, come un grido di risoluzione alla vita, espressione latente di un’idea che nella forma e nel contenuto è svincolata dagli obblighi del percorso della rappresentazione figurativa”. (dal Manifesto “Passaggio di Frontiera”, 14 gennaio 1995)
marilena badolato