I NOSTRI 150 ANNI DI “CUCINA ITALIANA” 1
Eravamo terra senza una Terra. Eravamo senza una Lingua. Eravamo senza Identità. Tra la perduta gente, per citare Dante e il suo sogno trecentesco, anticipatore di quello risorgimentale di un’Italia libera indipendente e unita, anche linguisticamente. Non avevamo costumi, non eravamo una Nazione: “ Gli italiani non hanno costumi, essi hanno delle usanze. Così tutti i popoli civili che non sono nazioni”. (Giacomo Leopardi )
La nostra koinè linguistica stentava a partire, ricca di parole dialettali, di francesismi, vocaboli austriaci, spagnoli, normanni, arabi. Se la lingua riflette il mondo delle idee e il pensiero, non potevamo allora pensare l’Unità. La lingua è stata la prima necessità urgente per sentirci italiani. L’unico modo per entrare all’interno del mondo reale è nominandolo, è l’unico modo per possederlo. Non possedevamo l’Unità, non la pensavamo, non avevamo le parole adatte a definirla. “ Le parole sono fatte per le cose: a quella tal cosa corrisponde quella tal parola: altre parole, ancorchè molte, non corrispondono. Sussiste la cosa, sussiste l’idea, sussiste la maniera di significarla e definirla, ma quella maniera, quel mezzo e non altro. ( Giacomo Leopardi)
La Crusca, nel 1612 con il primo Vocabolario, aveva tentato una codificazione linguistica sull’impossibile, basata soprattutto sul nostro grande patrimonio culturale greco e latino, con quella fantastica lingua greca che con l’uso di prefissi e suffissi era riuscita ad abbracciare tutto il pensiero umano, da quello letterario a quello filosofico e soprattutto quello scientifico, ma sarà il Manzoni soltanto due secoli dopo a tentare la grande unificazione linguistica. Si era compreso che la poesia la letteratura, la lingua, ma anche i costumi, gli usi le abitudini tramandate, avrebbero trascinato in un vortice di appartenenza anche le divisioni storiche e geografiche, i campanilismi: “ Penso una nazione italiana basata sulla lingua, sul genio nazionale, il pensiero scientifico, il costume cittadino” (Vincenzo Gioberti). La Poesia, la Letteratura italiane hanno realizzato un’unità nazionale secoli prima dell’unità istituzionale e civile, così Carducci ebbe a dire nel 1874: “Quando il principe di Metternich disse l’Italia essere una espressione geografica, non aveva capito una cosa: ella era una espressione letteraria, una tradizione poetica…”.
Lingua e usi e abitudini alimentari che scompaiono o si affermano, che vanno e vengono, che diminuiscono d’intensità o prendono nuovo vigore. Parole scomparse, ingiallite per usare un aggettivo caro a Leopardi: pietanza, da pietas latina erano gli avanzi di fine pasto che venivano offerti ai poveri, spesso tramite religiosi o enti conventuali; lo scalco e poi il trinciante o tagliere, colui che porzionava le vivande; il cuciniere, il cuoco di oggi e il bottigliere, colui che mesceva le bevande; tascapane, perché lì si teneva il pane, quel tozzo di pane, quel pezzetto che entrava in tasca, il cantuccio di pane per dirla alla toscana; vocabolo ottocentesco la minuta o distinta vergata in calligrafia; la lista delle vivande per il menù, poi il ramaiolo, chè di rame era fatto; le guastade, caraffe dal ventre lungo e il collo stretto, il lucignolo, piccola lampada alimentata ad olio, chè l’olio in origine era usato per far luce; il cartoccio, dove tenevamo i semi, le noccioline, i lupini, le caldarroste; i servizi di credenza, che erano i vari piatti, le varie preparazioni; i valletti, antenati dei camerieri; i princìpi, i primi piatti e i rilievi e i trasmessi le altre portate; i budinieri (Vialardi) piatti monumentali, vere e proprie opere d’arte, per portare in tavola bombe dolci e salate, semifreddi, soufflé, per citarne solo alcuni. Perchè la lingua è in continuo movimento: “ Perché la lingua e naturalmente e ragionevolmente cammina sempre finch’è viva, e come è assurdissimo il voler ch’ella stia ferma, contra la natura delle cose, così è pregiudizievole il volerla riporre più indietro che non bisogna obbligarla a rifare quel cammino che aveva già fatto direttamente e debitamente. Questo accade in ogni lingua: tutte si vanno rinnovando dismettendo delle vecchie e adottando delle nuove voci e locuzioni. Se questa seconda parte viene a mancare, perderà continuamente e scemerà e si ridurrà così piccola, povera e debole, che non saprà più parlare, né bastare ai bisogni e ricorrerà alle straniere. Quante parole ha la nostra lingua prese dal francese, dallo spagnuolo, dalle lingue settentrionali, e tuttavia riconosciute e legittimamente divenute da gran tempo, italiane.”( Giacomo Leopardi)
Bisognava allora pensare l’Unità, parlare l’Unità, mangiare l’Unità, avrà pensato l’Artusi, grande appassionato gourmet, scientifico anticipatore di ricette multiple, di abbinamenti di gusti settentrionali, centrali, meridionali.
Quelle Italie del burro del lardo dell’olio erano decisamente troppe per una idea di Unità, bisognava creare qualcosa di unitario dal tanto, dal troppo, qualcosa creato dalla miriade di colori, di profumi, di sapori. Abbinamenti che unissero gusti e tendenze diversi, sapori ricette usanze lasciati dagli spagnoli, francesi austriaci e altri e altri. Artusi è stato il primo ad aver tentato una unificazione nazionale a tavola, ad aver compreso l’importanza di una unificazione oltre che linguistica anche gastronomica, come fattore di identità nazionale e soprattutto come tentativo di recupero di una stile di vita italiano.
Con rigore scientifico, in cucina parliamo di chimica, ideò 790 ricette, dai brodi ai liquori, dal Piemonte alla Sicilia, passando attraverso principi (i primi piatti), minestre, secondi e dolci. Pubblicato nel 1891 e pieno di annotazioni personali, spunti riflessioni originate dall’aver provato e riprovato le ricette, all’inizio non ebbe grande fortuna proprio per la sua innovazione originalità, poi invece divenne il testo principe dell’Italia unita e ancor oggi uno dei capisaldi della cucina italiana. “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, un trattato di storia, geografia e cultura, una guida attraverso la conoscenza/scoperta dei prodotti e del territorio, volta a costruire una identità dettata da saperi, le conoscenze dei singoli, e i sapori, il prodotto dell’integrazione tra singoli e ambiente. Il territorio insomma.
Con lui piatti nazionali saranno: i crostini di fegatini di pollo, i maccheroni al pomodoro, gli gnocchi, il risotto alla milanese, il vitello tonnato, le scaloppe al marsala, la crostata di frutta e la zuppa inglese. Tanto grande era la voglia di italianizzare i piatti che balsamella verrà detto per bechamel, sgonfiotto per soufflé, ciarlotta per charlotte. Grande desiderio di unità cementato poi dagli scambi dai commerci dalle migrazioni che diventeranno un mezzo per conoscersi e instaurare nuovi rapporti. Anche la circolazione tra le neonate Province italiane favorirà la diffusione di un senso di appartenenza comune, grazie alla libera circolazione degli italiani in Italia. Questi liberi scambi, queste strade ferrate per meglio comunicare che auspicava Cavour, ci porteranno ogni giorno a confrontarci nelle scelte, negli incontri personali e a crescere come Nazione. “ Le nostre città sono il centro antico di tutte le comunicazioni di una larga e popolosa Provincia, vi fanno capo tutte le strade, tutti i mercati del contado, sono il cuore nel sistema delle vene, sono termini cui si dirigono i consumi, e da cui si diramano le industrie e i capitali, sono un punto di intersezione o piuttosto un centro di gravità…(Carlo Cattaneo).
Continua-
Marilena Badolato maribell@live.it