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IL RISOTTO: LA COTTURA ITALIANA DEL RISO. 1

Il risotto: la cottura italiana del riso.

Risoptimo risopto risotto: non importa chi per primo l’abbia chiamato così, o se a un certo punto, di comune accordo, i parlanti abbiano deciso che il riso era buono, era ottimo: mi piace comunque pensare che così sia stato. Il riso faceva bene, aveva una veste di salubrità e bontà, una specie di neutrale nutrimento che ognuno poteva vestire a suo piacimento, sentendosi bene anche dopo averne mangiato tanto. Saziava ma non appesantiva il pensiero, la mente. Il biancore poi si accostava a quel nitore di tante ricette medievali, era accettato come sano come buono come bello. E questo l’avranno certamente capito quei monaci benedettini, ora et labora,  che cominciarono a coltivarlo in quelle terre malsane e paludose, inventando da esse qualcosa di  utile, di commestibile di medicale in certe situazioni di patologie gastrointestinali. Compiendo insomma un  miracolo.

Il Riso

Usato in piccole dosi perché ritenuto spezia rara e preziosa,  il riso nel Medioevo è considerato un farmaco, spesso consumato sotto forma di infusi e decotti di cui si beveva anche l’acqua di cottura. E’ utile per i “sofferenti di stomaco e intestino”: l’impiego medicinale è attestato da alcune note trovate nei registri dell’ospedale di Sant’Andrea di Vercelli, del 1260, che riportano le somme spese per l’acquisto di riso da somministrare agli infermi. Questa fisionomia di alimento salubre, il riso la conserverà a lungo. Mi ricordo la nonna e la sua acqua di riso che “rinfrescava” l’intestino e il riso sfarinato che usava come cipria per levigare, sbianchire la pur già bella e diafana pelle. In cucina era usato sempre tritato, come addensante per ispessire brodaglie, quando altro non c’era. Il riso, Oriyza Sativa, era entrato in Europa già nell’VIII secolo attraverso gli Arabi e la Spagna, gli stessi che lo porteranno nella nostra penisola. Per avere la dignità di riso bisognerà aspettare il Rinascimento, dove acquisterà il suo ruolo di alimento, e che alimento, così naturalmente e plasticamente versatile che verrà usato per innumerevoli preparazioni storiche del tempo. La sua coltura  in Italia, nell’Alto Medioevo e nelle zone paludose a sud-ovest di Vercelli, la troviamo documentata in una lettera del 1475, in cui il Duca di Milano, Galeazzo Maria Sforza, regala un quantitativo di riso in sacchi al Duca d’ Este, signore di Ferrara. Leonardo da Vinci avrà l’incarico dal Duca di perfezionare e canalizzare l’irrigazione delle risaie nella tenuta sforzesca presso Vigevano e nelle zone paludose del Po. Finalmente un medico senese, a dimostrare che questo era l’ambito in cui di riso si disquisiva, Andrea Mattioli (1500-1577) nel suo “elogio del riso”, lo raccomanda come alimento gustoso, digeribile, fortificante.

Ma il boom del riso si avrà nell’800.

Il progresso determinante per la risicoltura italiana fu tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, con lo sviluppo di una rete di canali irrigui che, modellando il territorio, forniscono ancor oggi approvvigionamento idrico delle valli del Po: il Canale Cavour del 1866, il Canale Villoresi, tra il 1884 e il 1893, il Canale Regina Elena del 1954. A Torino e in casa Savoia era il piatto dei giorni di festa. Anche in Inghilterra in questo periodo comincia diffondersi in modo massiccio il consumo di riso, soprattutto la ricetta della minestra di Milano, come veniva chiamata a Londra e di cui fioriranno innumerevoli versioni  nei vari autori e trattati di cucina: vivanda di riso alla lombarda,  zuppa di riso alla milanese, riso giallo cotto in brodo, riso giallo in padella, riso giallo alla milanese. L’Artusi, il primo a classificare il riso a seconda del metodo di cottura, nella sua Scienza in cucina e arte del mangiar bene, lo chiamerà risotto alla milanese, con lo zafferano che darà il colore, e con varianti diverse con o senza vino con o senza midollo e cervellato, un antico e storico impasto di grassi speziati, tutto milanese. Codificherà così una cottura specifica del risotto: in  casseruola, tostato in un composto di grasso e con la progressiva aggiunta di buon brodo caldo.

La Nutrizione

Il frutto di questa pianta è una cariosside (chicco) avvolto in  una pellicola, il pericarpo, che racchiude le cellule ricche di amido: liberato dalle glumette, il chicco, opportunamente lavorato, si presenta di color bianco avorio e duro. Ricchissimo di amidi, oltre il 75% e povero di proteine, con una percentuale di  lipidi bassa, il 3%, e in quello integrale ancora minore, presenta anche vitamine e i sali minerali. Il chicco è contemporaneamente il seme e il frutto della pianta: la sua origine e la sua fine!!!

Le Tipologie

In base alle dimensioni del chicco e alla quantità in amido, sono divise per legge in 4 gruppi: originario o comune, semifino, fino, superfino.

L’Emozione

“…Il chicco si palesa qua e là coperto di residui sbrani d’una pellicola, il pericarpo, come di una lacera veste color noce, ma esilissima: cucinato a regola dà risotti eccellenti, nutrienti, ricchi di quelle vitamine che rendono  insigni i frumenti teneri e le loro bucce velari” (Carlo Emilio Gadda)

Il chicco di riso, secondo il suo ideogramma orientale, rappresenta l’essenza interiore, il seme che grazie alla pioggia, al sole, all’acqua e alla luce, germoglia, si radica e vive.

Il riso si presta a infiniti sapori, si accompagna a tutto, un po’ come il pane, sazia, ma sembra rimanere a mezz’aria, è insomma in alimento che ognuno può costruirsi con il sapore che preferisce, più ricco, più semplice, più dietetico, più opulento. Si pensi ai timballi  di riso, come scrigni di tesori…

Il riso è l’alimento più prezioso della terra per i cinesi ed i popoli orientali in generale e simboleggia da sempre la fortuna, la fecondità, la felicità, la buona salute. Per questo vi è la consuetudine beneaugurante di lanciarlo verso gli sposi il giorno del matrimonio.

Il cibo è cultura quando si produce, perché l’uomo non utilizza solo ciò che trova in natura ( come fanno le altre specie animali), ma ambisce a creare il proprio cibo, sovrapponendo l’attività di produzione a quella di predazione. Il cibo è cultura quando si prepara, perché, una volta acquisiti i prodotti base della sua alimentazione, l’uomo li trasforma mediante l’uso del fuoco e una elaborata tecnologia che si esprime nelle pratiche di  cucina. Il cibo è cultura quando si consuma , perché l’uomo, pur potendo mangiare di tutto, in  realtà sceglie il proprio cibo, con criteri legati sia alle dimensioni economica e nutrizionale del gesto, sia ai valori simbolici di cui il cibo è investito. Il cibo allora si configura come elemento decisivo dell’identità umana  e come uno dei più efficaci strumenti per comunicarla.  Massimo Montanari

Continua-

Marilena Badolato       maribell@live.it

AUTHOR - Marilena Badolato