Blog

LA TREBBIATURA DEL GRANO, L’ANTICO RITO ORMAI TECNOLOGICO.

TUTTI appartenevano a un destino comune con quel grano che veniva seminato, raccolto e trebbiato. E tutti aiutavano quando era l’ora giusta per mietere e poi trebbiare e formare quei covoni che più tardi, grazie a certi macchinari, sarebbero diventati “balle” facilmente trasportabili nel fienile o nella cascina per essere utilizzate in inverno.

 

 

PER SECOLI, la fine di giugno e la prima settimana di luglio sono stati il periodo di tempo determinante per stabilire se un buon raccolto avrebbe regalato serenità, o uno scarso molti interrogativi. Anche perché nel frattempo si erano contratti piccoli debiti, da saldare con la vendita del grano. Per San Pietro, insomma, i covoni erano ammucchiati secondo una secolare metodologia d’impilamento, nell’attesa che la trebbiatrice arrivasse a fare il suo lavoro...

 

 

NELLE nostre campagne, almeno fino agli inizi degli anni Sessanta, anno in cui furono introdotte le mietitrebbiatrici semoventi, la mietitura e la successiva trebbiatura erano operazioni manuali impegnative nelle quali si manifestava tutto il senso di appartenenza ad un sistema economico, ecologico e sociologico che per secoli ha retto il modo di vivere e rapportarsi con l’ambiente della maggior parte degli Italiani

 

 

LA MIETITURA avveniva quando il chicco di frumento era non del tutto maturo, altrimenti sarebbe uscito dalla spiga durante le operazioni di trebbiatura e trasporto. Da un “Prontuario dell’agricoltore” del 1936 leggiamo che “trebbiando a piede di cavallo occorrono circa 130 ore di cavallo e 400 d’uomo per 100 ettolitri (cioè per circa 80 quintali di grano)”. Le operazioni di trebbiatura, a seconda della quantità dei covoni da sgranare, richiedevano un gran numero di operai e, per un tempo interminabile, si sentiva il battito frenetico del trattore e il rombo della trebbiatrice e si spargeva il denso polverone della pula, la “veste esterna” del chicco.

 

 

UN ABBONDANTE PRANZO SULL’AIA chiudeva i lavori. Ad esso partecipavano tutti quelli che avevano collaborato più qualche ospite importante. La trebbiatura era un momento di grande festa che richiedeva un mangiare particolarmente abbondante, considerato l’elevato numero di persone che si riunivano nelle varie aie in cui sostava la trebbiatrice. Salumi, formaggi, panzanella, il “pan bagnato”, fagioli, e qualche possibile dolcetto per colazione; pasta al sugo di carne per pranzo o minestra in brodo che veniva "rinforzato" con il vino, ed infine a cena “nane”oche o polli arrosto, o pecora in alcune zone, e si concludeva con dolci, specie ciambelloni, i "torcoli", e zuppa inglese. Il tutto annaffiato da vino e acqua a volontà.



La giornata di lavoro dura finché c’è un barlume di luce. Quando poi c’è un’aia da finire non è raro veder lavorare ancora al chiaro di luna, se c’è oppure alla luce dei fari del trattori raccontaDaniela Ficola, che insieme alla figlia Angela Maria Spalazzi Caproni, gestisce la Azienda agraria “Valle Monaci” a Fontignano, nel perugino.



"OGGI la mietitrebbiatrice-continua- ha una barra di 5 metri che con un moto rotatorio incamera le spighe, divide la spiga dalla paglia e riesce a separare i chicchi dalla spiga". In questa Azienda Valle Monaci si coltivano, in oltre cinquecento ettari, granaglie varie, grano duro, antico, favino, orzo, colza, e si deve tener conto anche della voracità dei cinghiali, un flagello, che odiano le spighe restate del grano duro e quelle che emanano un cattivo odore come la colza.

 

 

IL NOME VALLE MONACI deriva dal fatto che tra il IX e il X secolo giunsero in queste zone i monaci benedettini che con fervore e con lo spirito racchiuso nel motto Ora et Labora bonificarono le zone paludose e ricche d’acqua del territorio donando nuova fertilità e nuovo vigore alle terre, grazie anche alla mano d’opera della gente accorsa ad aiutarli che riceveva in cambio protezione ed asilo. Protezione che si intensificò nel Medioevo con la costruzione, in questi borghi, del Castello e dell’ Hospitale, nato come ricovero per viandanti e pellegrini. Il registro del “Sussidio focolare” del Rione di Porta Santa Susanna – detta anche Porta Trasimena- del quale l’area di Fontignano e Mugnano faceva parte, attesta che nel 1276 queste”ville” erano abitate da qualche centinaio di persone e che dalla metà del 1300 erano divenuti “Castrum”, dando inizio allo sviluppo dei paesi nei secoli a venire. E Mugnano si distinse non solo per l’attività agricola, ma anche per la particolare attività dei “cocciai” che, seguendo un’antica tradizione, lavoravano le terrecotte e le cuocevano nelle apposite fornaci. Ebbe poi la sua importanza per tutto il tessuto sociale ed economico l’edificazione di due tabacchifici, uno dei quali intorno al 1950 annoverava circa duecentocinquanta dipendenti. Ed era di proprietà del padre della stessa Daniela Ficola, la quale mi indica, in questo paese diventato famoso per i suoi “muri dipinti”, un’opera dedicata proprio alle “tabacchine” e al loro importante lavoro. E dopo aver assaggiato il famoso torcolo di Fontignano, assaggio anche le piccole splendide meringhe di Mugnano che racchiudono un chicco di caffè.

 

 

NELLA bella casa padronale degli Spalazzi-Caproni a Fontignano, si gode della verde frescura di un ampio giardino e del frutteto contiguo, ma anche della vista della piazza principale di questo borgo ricordato per Pietro Vannucci il Perugino e il suo ultimo affresco, prima della morte, presso la Chiesina dell’Annunziata. E si può ammirare anche il pregevole campanile in cotto, progettato dal suocero di Daniela, l’architetto Giovanni Caproni, uno dei maggiori rappresentanti del neoclassicismo in Umbria. E dove all'ultimo piano della casa, voluto fortemente da Angela Maria, è custodito il mirabile archivio privato dell’architetto Caproni con tante testimonianze comprese alcune uniformi militari originali. Assolutamente da visitare.

 

 

 

marilena badolato

AUTHOR - Marilena Badolato