ZAFFERANO: L’ORO NELLE TELE, L’ORO NEI PIATTI.
La preziosa spezia e i suoi molteplici usi: come farmaco, come potente afrodisiaco, come condimento e tintura dei tessuti.
DA CROCO A ZAFFERANO, nel gioco dei nomi, in realtà fu quel suo colore dorato ad attrarre la curiosità del mondo antico, che tingeva d’oro vesti e veli grazie al fiore prezioso. Abiti sacri e religiosi, ma anche vesti di re collegavano la ricchezza del mondo materiale a quella invece della sfera spirituale, rivestendo di un bel colore dorato quello che spesso oro non era. Già presente nel Papiro di Ebers, é citato come croco nel mondo greco: da Omero nell’Iliade, da Eschilo nel dramma Agamennone, da Sofocle nell’Edipo a Colono, e Aristofane, descrivendo i misteri dionisiaci, rappresenta le tuniche di Dioniso e dei suoi seguaci tinte con il croco, mentre i medici dell’antichità, Ippocrate e Galieno, ne lodavano già le proprietà curative. Virgilio nelle Georgiche parla del “crocum rubentem”, mentre Plinio afferma che tra i migliori vi è quello di Sicilia, infatti i Romani lo useranno soprattutto in cucina: sono famose le salse dorate di Apicio per condire il pesce. Gli Arabi, diffondendolo Spagna, ne cambieranno il nome, da croco a zafferano, parola che deriva dal persiano “safra” (giallo), passato nell’arabo “za’faràn” e quindi nello spagnolo “azafran”. Profumi, unguenti con proprietà medicamentose e cosmetici sotto forma di oli preziosi che donavano un tocco dorato alla pelle, contenevano la preziosa spezia, che nel sec. XIII verrà coltivata soprattutto come pianta tintoria, in particolare per colorare panni di lana, seta, lino e usata anche nella pittura. Nel Medioevo continuò comunque anche l’uso farmacologico, come antispasmodico e sedativo, impiegata per la salute di stomaco, milza, fegato, cuore e come potente afrodisiaco. Fu così che divenne la regina delle spezie e fu molto usata per condire e abbellire carni di capretto, pollo, selvaggina, pesce, ma anche minestre, soprattutto accompagnata a farro, ceci, piselli, fave, e in dorati biscotti. Nel Rinascimento regalerà l’oro ai piatti scenografici delle ricche Corti: sappiamo infatti che nel XVI secolo le quotazioni della droga raggiungevano i quattordici ducati la libbra, basti pensare che 500 grammi valevano quanto un cavallo. Per la sua complessa coltivazione e soprattutto complessa raccolta, l’uso andò via via scemando, rimanendo in quella terra d’elezione, l’Abruzzo, dove la storia vuole che un monaco abruzzese della Inquisizione riuscì a trafugarne una pianta sottraendola alla severa legge spagnola. Infatti in un documento del XVIII secolo, un “Contratto di matrimonio” ritrovato a Navelli, lo zafferano rivestiva ancora un gran valore, tanto da figurare nella dote della sposa. Il più antico riferimento al commercio di zafferano in Umbria si trova nella documentazione archivistica del monastero di S. Maria di Valdiponte (Abbazia di Montelabate) nei pressi di Perugia, nei cui libri contabili è registrato l’acquisto di una “uncia çafarani”, in data 2 febbraio 1226, al prezzo di 4 soldi e 6 denari. Questo croco gentile era un tempo largamente coltivato nell’antico Ducato spoletino dell’alto Medioevo e che “zafaranari” spoletini, registrati con nomi e cognomi, fossero presenti a Roma, lo attestano gli “stati d’anime” di alcune parrocchie della città, diligentemente annotati dai parroci. La coltivazione del prezioso croco fu infatti particolarmente fiorente in Valnerina dal ‘300 al ‘500, come dimostrano molti documenti degli statuti comunali dell’area. A Cascia esisteva uno dei più importanti mercati di zafferano, dove veniva addirittura utilizzato come moneta di scambio, come è riportato nella relazione di Cipriano Piccolpasso, del 1565, per conto del Governatore di Perugia. La spezia era così diffusa, che la conferma letteraria arriva dai versi di Pierfrancesco Giustolo, l’umanista spoletino nato nel 1440, che per anni servì Cesare Borgia, e che scrisse il “De Croci Cultu”, un poemetto sullo zafferano, ristampato dall’Accademia spoletina nel 1855. Interessante un capitolo del Registro delle Gabelle del Comune di Spoleto, per l’anno 1461, relativo alla “ Gabella zaffaraminis”, la tassa imposta per la coltivazione del prezioso fiore. Altrettanto storicamente importante è la produzione di zafferano a Città della Pieve, attestata a partire perlomeno dal sec. XIII dalla testimonianza dello Statuto di Perugia del 1279 dove si vietava la semina della pianta da parte dei forestieri “in toto districtu Perusii”. La pianta doveva principalmente servire alla tintura dei tessuti, chè Castel della Pieve era un importante centro di produzione del panno fin dal sec. XIII. Negli “Statuti della Gabella di Castel della Pieve” del 1530 compare, tra le altre rubriche, anche la raccolta di zafferano. E nel Cinquecento, persino nella zona di Piobbico, stando agli scritti di Costanzo Felici, “si coltivava lo zafferano che era diffuso anche nel confinante territorio Eugubino”.
LO ZAFFERANO. Prodotto interessante non solo perché contiene proteine, vitamine idrosolubili come la B1, B2, B6, la PP, liposolubili come la vitamina E e la pro-vitamina A cioè il beta carotene, e glucidi e sali minerali, ma proprio perchè le sostanze che regalano colore, sapore e aroma sono le più importanti. Sono quelle che donano il prezioso colore- la crocina-, il sapore amaricante-la picocrocina-, e l’aroma- il safranale-, di cui lo zafferano umbro sembra particolarmente dotato nei valori massimi, mostrando quindi una spiccata capacità antiossidante totale. Oro nel piatto allora anche per il suo salutistico valore.
marilena badolato Rivista RIFLESSO Periodico di informazione, cultura e società dell’ Umbria.